Certe inattese mattine di sole
nella stagione più cupa
dell’anno, della vita che s’ingorga
nelle abitudini:
la luce che irrompe liberata
al primo cigolio della serranda,
piena impaziente che premeva
dietro la chiusa che si leva, là
dov’era più torbida e infetta
l’acqua del fiume bloccato;
certe mattine pare che la vita
sia stata per anni in attesa
appena là fuori, confidando
che per una tua disattenzione,
per una mossa sbagliata,
fossi tu a darle un’opportunità.
Bastava forse una piccola breccia
sulla pietra tombale
per squarciarla in una trionfale
resurrezione; bastava
un’incrinatura, una crepa
nel guscio d’una viziosa infelicità.
Archivio mensile:Gennaio 2007
ricordando G. C.
Quel moncone di ponte che additava
la montagna lontana, sporgendo
da un dirupo franoso, là sopra una strada
che solo tu vedevi
tra saggine e ginestre e pietrame;
quel ponte, mi spiegavi, non era un ponte,
ma un antico acquedotto.
Me lo dicevi come confidando
a me solo un segreto.
Non c’era anfratto e maceria
e leggenda che tu non conoscessi
di quelle nostre contrade.
Acquedotti. Ce n’erano tanti,
in epoca romana, ai tempi
di Massimiliano Erculeo, precisavi:
specie dove ora la campagna
era più arsa e spoglia. Poi, brandendo
uno stecco come una spada,
indicavi anche tu un preciso punto
all’orizzonte, dove terminava
il tuo ponte-acquedotto.
Sei morto l’anno dopo. Ora io solo
so del balzo di quelle antiche acque
da lì all’opposto versante
lungo l’immenso ponte.