Un nero strato di cemento e ghiaia
allagò l’aia, ricoprì la cenere
di gramigne bruciate.
E sopra la gettata fu murata
una bruna chiancata di arenaria.
Erano in tre: un valente muratore,
un vecchio e un erculeo manovale.
Posavano lastroni ponderosi,
come me fiduciosi che la casa,
la mia casetta, sarebbe durata
nuova e perenne, indenne da ogni tabe.
Ma non c’è scampo: aprile
in ogni minima crepa,
in ogni stampo di conchiglia fossile
insinua certe erbacce
dalle radici dure come scalpelli.
Certe tenaci piovre vegetali,
tentacoli e granfie che a strapparli
strappano malta e pietre come zolle.
Ti resta nelle mani qualche segno
e latice vischioso di celidonia.
Ne avverti ancora dopo mesi
l’odore acre. Settembre
è già quasi passato
e io vivo in un comodo bivano
al terzo piano, in compagnia di un pendulo
potus appeso come un lampadario.
Lontano da gramigne e da cicorie.
Archivio mensile:Settembre 2007
Un altro fatto da annotare è che
non la vedo arrivare, la Beatrice.
Ha lieve il volo, sfreccia via veloce
come un uccello, tanto che trasale
e la manca lo sguardo. Poi si posa
ed è lontana, stanca di volare
inseguita da stormi di nemici
o amanti immaginari.
Ti dimentico, certo. Come il pino
dimentica i suoi nidi, la sua chioma
resecata da anni. Come il vino
nell’aceto dimentica il suo aroma.
appunti di viaggio
Fusina è una ringhiera
tra un prato verde e il mare.
Quattro acacie, due tamerici,
un bar, un imbarcadero.
Su sdraio coloratissime
i mestrini prendono il sole.
Lungo la banchina aristocratici,
surreali lampioni.
Un cartello stinto, forse un divieto
di balneazione, o di pesca.
Del resto con quale scusa,
con quale esca…
Passano vicinissimi
rimorchiatori e navi
dai cui nomi traiamo auspici:
R.E. tours, O.S.A., Icaro, Caronte.
Fusina è il mare più vicino,
la Rimini dei pigri,
il terminal dei sedentari.
Venezia è sull’altra sponda,
oltre una fuga di briccole.
Da qui, in questo settembre, potrei partire.
Telefonare, almeno.
Ah le rotte d’oriente!
senescenza
Quando l’apatia, traguardo estremo
della saggezza degli Stoici o vile
pesantezza epatica, pigrizia,
svogliatezza senile, funzionamento
a bassi regimi del vecchio motore,
del cuore – disincanto senza amarezza,
quasi orgogliosa indifferenza; quando
la mente, il processore
non ha ormai che pochi
byte da elaborare, grazie al balsamo
dell’oblio, e l’amore, il caro volto
dilegua nella fosca lontananza
che chiamiamo ricordi, vago nome
che tutti i nomi compendia e confonde;
quando grava le palpebre un’autunnale
indolenza, e la sera riconforta
il letto vuoto – allora è il tempo – è tempo
di telefonare a una ragazza
di cui ricordo bene che ha un bel culo.
Il numero di telefono è nella sim,
grazie al cielo.
peraltro
Ho sempre meno sentenze da buttare
nelle conversazioni, ridotte all’osso
le mie antiche opinioni, che peraltro
si arrendono volentieri
ad ogni buon paradosso.
Peraltro uso largamente
l’avverbio peraltro e locuzioni
simili, incline come sono
a considerare ogni questione
da vari, strabici o meno, punti di vista.
Peraltro mi appaiono spesso
così ben salde e vane
le convinzioni degli altri
che sarebbe insensato e deprimente
spendervi laboriose discussioni.
Peraltro la gente mi annoia.
E’ più cose ha da dire più mi annoia.
Mi annoia per ciò che dice, per come lo dice,
e per altre ragioni (il calo
di passione, in generale,
e in particolare degli ormoni).
Persino litigare con una donna
non è più interessante come un tempo.
Però con una eccezione, che mi sorprende.
Un deferente inchino alla signora.